Faccio seguito al pur sdegnoso e sussiegoso Valerio Di Stefano, che ivi (ove? colà) mi sfida a singolar tenzone su temi poetici, approfittando del fatto che egli è Abile Linguista™ mentre io, ahimè (ahimè? ahivoi) sono più che profano nel settore delle belle lettere, sapendo a malapena scrivere ventitrè con l’accento solo dopo numerosi scappellòtti dati con la rincorsa sulla nuca.
Mi è gioioso ribadire al suo componimento sulla comunicazione al femminile levando alti lai (nel senso più formale: sono alti tre stanze, nel caso) sul tema dei dialoghi uomo-donna. Tema coniugale, anzichenò.
Il tutto, ovviamente, è un gioco. Non ho la benchè minima pretesa, anche perchè a raffrontarmi al Di Stefano mi sento un po’ come Alvaro Vitali contro Mike Tyson.
Mi chiedi se ho capito
Mi chiedi se ho capito
ti guardo un po’ basito
vorrei già replicare
ma rieccoti a parlare
ancora pago pegno
al gran femineo sdegno
perchè io non son dòmo
o perchè sono uomo?ci giri tutto intorno
parlando per mezz’ore
inquini ‘l mio bel mondo
con futili parole
non è che io son duro
nè voglio far la rima
per me il silenzio è puro
e afferro già alla prima.durissimo cimento
lo starti ad ascoltare
m’ammazzi ‘l sentimento
non è meglio trombare?
e presto con fervore
avrai le tue ragioni
dolcissimo mio amore
hai rotto li coglioni!
sa30a
Sì, però ventitré si scrive con l’accento acuto e femmineo si scrive con due emme.
Propongo meno poesia e più trombate
@lys: prendo per buona la prima, e dissenticchio sulla seconda.
@Lipo: te l’appoggio 😉
@lys: Anche “Ahimé” si scrive con l’accento acuto ma non te ne sei accorto. Tua culpa, tua maxima culpa.
@Sa30A: e io te lo spingo.
@Lipoqualcosa: un ti preoccupa’, da queste parti nessuna è mai rimasta senza la consolazione dei misteri gaudiosi, e nessuna si è mai lamentata del verso che riesco ad infilare profondamente nell’opera aperta (come la chiamava Umberto Eco), sicché…
Valerio, manco un insulto per il testicolo? cavoli, mi invecchi proprio male tu…
Io invecchio male, ma tu poèti peggio.
Il verso è Metastasio
e l’altra metà no
ti scrivo, bèr Topèsio,
e dopo me ne vo’.
L’amore è inconsapevole,
piovigginando sale
ti senti un po’ colpevole
(in culo anch’al maestrale!)
se dopo un minutino
ti cala la passion
invece di riaccènderla
ciai sol l’incomprension.
Non è mica da ridere
ti vogliono spiegare.
Poi van la penna a intrìdere
nel sacco tuo scrotàle
e allora te lo scrìvono
(biancheggia ancora il mare?)
perché, si sa, la pàgina
se bianca dà horror vacui
e poi chi se lo immagina
ir tegame di su’ ma’
che dice “Lo sapevo
a stare con luilì
ti sei ridotta a tale
grave desolazione,
dài retta un po’ a tu’ madre
non è una situazione
per una come te!”
“Ma mamma, non capisci
lo vedi? Neanche tu.
Gli voglio ancora bene
ma non lo amo più.
Lui cià un caratteraccio
si chiude nel mutismo
e non c’è più quel feeling
tutto il romanticismo,
ho lagrime di sale
lo sai che lui è sensibile
e un po’ psicosomàtico
non sente più ragioni
è sempre più apatico,
par che non gl’interessi
la giustificazione
oppur la spiegazione
del mio ratto fuggir.
Non sono stronza io
che gliela voglio dare
(dico la spiegazione
non capir sempre male!)
non mi vuole ascoltare
si può esser così?”
Ma pare così brutto
non mettersi all’ascolto
di chi tutto ci ha tolto
men che la dignità?
Ahahahaha!! Davvero mitici… La poesia al servizio della ironia è per me una invenzione bellissima. Quasi come le barrette kinder.