Ognissanti. Per me ad Ognissanti si compie un rito: vado al cimitero. Non è una cosa che faccio per piacere, lo faccio per un dovere che mi autoimpongo. Una ritualità, una forma di rispetto verso chi ha calcato queste strade prima di me e che ha contribuito a rendermi come sono.
Ad Ognissanti il cimitero della mia città è quasi bello. Un tripudio di fiori freschi, profumi che aleggiano nell’aria. Donnette di una certa età che vagano in gruppi di tre con sguardo trasognato tenendosi sottobraccio come ragazzine a scuola, chissà se per confidenza o per timore di cadere. Una coppia di ragazzi della mia età vaga per un campo funebre cercando una tomba di cui sicuramente non hanno mai veramente saputo la locazione, e nel frattempo parlano del più e del meno. Una signora sulla settantina che con fredda efficienza pulisce, spazza e sistema i fiori a una serie di tombe, l’ultima superstite di un ramo familiare che è a un passo dall’estinzione e dal dimenticatoio. Nessuno piange.
Io invece si. Non ce la faccio, non resisto in quel posto lì. Le tombe dei miei cari mi straziano, già a partire dalla tomba di mia madre sono già distrutto. Poi i nonni, gli zii, tutta una serie di nomi e cognomi che mi ricorda che sono ad una persona soltanto dalla completa solitudine al mondo, e che quella persona è pure malata. Ho trentasette anni e sono messo peggio di un sessantenne. No, sa30a, non sei soltanto signorino. Sei proprio solo. Fattene una ragione.
Passo silenzioso tra le tombe dei miei cari. Un pensiero a ognuno, non diverso da quello che riservo loro quasi ogni giorno, ma arricchito dal sacrificio che oggi sto facendo per loro.
Camminare nei cimiteri, per quelli come me, è devastante. Si viene assaliti da tante storie, da tanti… riverberi di vite che mi echeggiano nella camera cava che è il mio petto. Non solo le vite che la morte ha interrotto quando desiderava, ma quelle che continuano ancora qui. Una lapide particolarmente curata. L’espressione austera di un volto che ha smesso di sorridere sessant’anni fa. Una tomba fresca di una donna troppo giovane su cui un bambino ha appeso un puffo di peluche martoriato dalle intemperie. Una lapide piccola piccola piccola che riporta soltanto una cifra, “2013”, e su cui qualcuno ha messo una girandola che si muove pigra.
Vi prego. Quando non sarò più qui, bruciatemi. Fatemi sparire. Non lasciate che la mia storia riverberi come uno strazio tra anime troppo delicate per stare in un posto orribile come quello.